E' con commozione che desidero scrivere queste righe in apertura del catalogo della Mostra permanente di Carlo Cupini, un artista che ho sentito vicino nel suo amore
per Duino. Sottolineo la mia commozione perché Egli ha voluto legarsi a Duino, dedicare le Sue opere a Duino e regalarne alcune al Castello. La sua gentilissima e carissima consorte lo ha
giustamente interpretato destinando una Sala permanente per le sue opere a Duino. A lui mi lega l'apprezzamento per il Suo modo di interpretare i valori della vita che condivido, il rispetto e
l'amore della natura e i valori famigliari. E' stato un vero uomo, sempre di umore positivo.
Carlo Alessandro Della Torre e Tasso
Un' esposizione permanente dei suoi dipinti al Castello di Duino era il sogno di Carlo. Un sogno che voleva dedicare all'amata madre Eleonora Scalettari, nata
proprio in quei luoghi veramente incantati. La mia immensa gratitudine va al Principe Carlo Alessandro Della Torre e Tasso che, sin dal primo incontro con Lui, ha mostrato una sensibilità umana
ed artistica non comune, consentendo nel 2004 una mostra personale di Carlo Cupini al Castello di Duino. Evento magico oggi perpetrato nel tempo con una Sala Permanente a Lui
dedicata.
Maria Grazia Di Filippo Cupini
Aver potuto ammirare le Sue opere nel Suo riservato studio è come averla conosciuta personalmente Maestro. I colori della vita quotidiana in contrasto con gli scuri
senza tempo mi ricorderanno eternamente la Sua personalità poliedrica ed enigmatica.
Porterò sempre con me l’armonia del Suo essere, la Sua conoscenza espressa in ogni conversazione e la Sua preziosa ironia così sottile ed al tempo stesso
irrompente.
Non inirò mai di esprimere riconoscenza a Maria Grazia per la preziosa persona presentatami e di ringraziare Lei Maestro per i generosi insegnamenti sulla Sua
tecnica pittorica, sulla verità dell’arte nella storia e per la volontà di trasmettere alla Sua allieva epistolare il testimone della Sua Alta Arte.
Giada Illuminati
CARLO CUPINI
IL SILENZIO DEL TEMPO
di Lorenzo Bonini
Quest’anima antica di buona pittura, subito la si avverte in questa mostra dedicata a Carlo Cupini, come fermo è il ricordo di un caro amico, c'è qualcosa di
coinvolgente e misterioso che pulsa dentro i suoi dipinti nella sostanza organica degli oggetti, come se uno spirito in corpi nudi premesse da sotto la pelle, la sua atemporale carnalità di
fantastici scenari interiori, dove la quiete scandisce il momento e il silenzio alberga tra le realtà oggettive e intime delle cose. Sussiste per Cupini una situazione irresistibilmente empatica
per queste atmosfere, nei dipinti c'è misura e armonia che invade d’umana tenera poesia il trasfigurarsi del ricordo in sentimento. Le sue nature morte con scorci arditi e complesse architetture
di composizione, sono solo in verità pretesti per raccontarsi attraverso un’abilità fluida e pulita, per cedere un po' narcisisticamente a racconti con eccessi di passione, ma sempre con un
linguaggio temperato, intellettualistico accorto, combinando la contingenza alla libertà compositiva, l’abilità sensibile al virtuosismo, l’elusione alla sorpresa. Nature morte dove tutto pervade
e anima.
Ecco è proprio lei, «l'anima», quell'insondabile equilibrio cui tendevano i maestri olandesi e fiamminghi, dove in essa doveva conciliarsi forma, contenuto, luce e
colore. Così come indicavano:
Osias Beert, Frans Ykens, Gerard Borch, Paulus Pontius, Jan Willemssen e Caspar Netscher, dotto nel ritrarre tappeti orientali, sete e broccati, e Beert,
specializzato in fiori e nature morte, i suoi dipinti sono definiti «ontbijtjes» in olandese «colazioni piccole».
Carlo Cupini conosceva bene quella scuola, tanto che nei suoi pittorici assolo «un solo genere», fa uso della prospettiva accidentale, una scelta progettuale che
conduce lontano: «fuori dal tempo», come voler catturare il palpito del momento non soltanto da ieri, da cui parte, ma soprattutto con la temperanza e lirismo dell’oggi. Ma proprio nel suo
collocarsi fuori dal tempo, riesce a dipingere il tempo e con esso, tutto ciò che al suo interno accade, vive e muore. Il tempo è un'idea astratta e ciò di cui lo riempiamo, che diviene la
concretissima quotidianità del reale: è tra questi due poli, l'astrazione e il naturalismo, dove si agita la sua pittura.
Da anni ormai Carlo Cupini, va scrivendo questa eterna commedia dell'esistenza, con la quale riannoda il passato al presente, il classico al moderno, l'eterno
all'effimero. Partito da esperienze lontane dalla pittura, come quella del medico, del bravo dottore una professione praticata in maniera ineccepibile, mentre maturava silenziosamente giorno per
giorno, anno dopo anno, la sua grande passione, «La Pittura», ideale supremo dell'arte, intesa come verità del «Tutto», «Musa, dell’eterna magnificenza del divino». Un bel giorno di tanti anni or
sono, la passione per l’arte sconfisse la medicina e di conseguenza trionfò la dura vita del pittore, che perseguì con convinzione nel corso degli anni attraverso studi e un interminabile lavoro
sperimentale, sviluppando quella sua caratteristica pittura che lo porterà all’affermazione in rassegne, personali e pubbliche in cui gli sono stati assegnati ambiti premi, tra cui va ricordato
quello della Fondazione Ignazio Silone per l’Arte nel 2000. Della sua pittura Vittorio Sgarbi, ebbe a scrivere: “ E’ sempre più rara l’attitudine degli artisti alla virtù. Un tempo nell’arte e
nella musica esistevano i «virtuosi» cioè gli artisti capaci, attraverso un grande mestiere, di creare emozioni e stupore. Oggi la meraviglia è rara, perché prevale il dilettantismo. Per questo
un’artista che coltiva il mestiere e, addirittura, un genere, un solo genere, quello della natura morta,sembra nonché inattuale, fuori dal tempo”.
Indubbiamente Cupini resta nell'ambito di un dichiarato naturalismo, la scelta dei temi è esemplare, da qui inizia il viaggio che eliminando da sé qualsiasi cadenza
simbolista, il reale rappresentato in tutto lo nega, approda all'armonia dei valori compositivi, nel senso di rappresentazione non più delle cose indicate ma di un'idea in cui tutto si riconduce,
con serafica fedeltà all’abitudine estetica degli oggetti inerti, inibiti narratori d’emozioni e ricordi, nel tempo in cui gli occhi spalancati vigilano da un luogo privilegiato della mente, le
sue vite silenziose sono consegnate alla plastica luce pittorica, come artificio scenico tra due universi: quello connaturato reale e quello psicologico del concetto del tempo, di un trascorrere
che non dimentica, ma che tutto assorbe, lasciando a ciascun episodio la sua bruciante vitalità, ma allo stesso modo elevandolo ad archetipo.
Da qui la doppia valenza di questa pittura che indica egualmente il disfacimento che appartiene alla morte e la bellezza che è della vita, il rimpianto e la
malinconia di ciò che è ormai soltanto un ricordo e l'attesa fremente di quel che ancora dovrà e potrà accadere, la realtà invitante e l'irrealtà di un sogno forse già sgretolato, o forse ancora
neppure sognato. Ecco il centro e l'anima di questi dipinti in cui Carlo Cupini perviene proprio attraverso l'impianto formale cui bisogna adesso tornare per aver coscienza di come la pittura
sappia e possa a tanto arrivare. Nelle sue nature morte c'è silenzio e non soltanto quello desolato delle vite silenziose, ma un silenzio radicato profondo, scarno, atavico senza ridondanti
leziosismi, per capirci. Ai disattenti il dipinto: «Ancora della Vita», potrebbe essere interpretato come un’opera corporea dovuta alla forma strutturale che la esclude da quei oggetti comuni da
salotti borghesi. Al contrario, proprio per la sua funzione ne diventa un simbolo povero che libera l’interpretazione, facendoci riflettere, pensare e meditare. Si può aggiungere per onestà
d’informazione, che il soggetto è difficile per la sua forma severa e accigliata e, non è certo romantica come un bel mazzo di fiori, lontanissima dalla universale bottiglia di Giorgio Morandi.
Ciò detto, la bravura di un artista si vede proprio nella scelta di questi severi soggetti, per intenerirli e spirituarli di poetica ci vuole talento: «Posta sul piano verde salpata sta
appoggiata, inattiva l’arrugginita Ancòra, dipinta con colori ferrosi da tenere setole, arpioni acuminati profumano ancora di agganci, d’abissi, di dura roccia scalfita e raschiata. Arene di
fondali ignoti, sabbiosi solcati con la cecità dell’avere udito e, la gomena legata si tende e profila all’ormeggio come cordone ombelicale vincolandoti anche adesso un'altra volta alla terra
madre».
Così era il dialogo tra astrazione e figurazione, ora diviene duello, senza vinti né vincitori, tra la caducità e la perennità, tra memoria e azione, tra passato e
futuro; nell’idea solenne del tempo s’immerge in un drammatico e dolente richiamo, la testimonianza di una condizione umana che vive di attimi. Un dialogo straordinario sottolineato dall’uso di
colori come racconti sbiaditi dal tempo, nel silenzio meditativo con il sapore acre della terra nella luce scenica che spiove dall’alto, come nei ultimi temporali di fine estate e prossimi
all’autunno, accompagnati da delicate luminescenze che creano forme e sfaccettature, aprendosi varchi nei pensieri e nei ricordi, col colore del cuore, ferendo gli oggetti e le cose per rivelarne
le segrete speranze dell’attimo, del quotidiano e dell'eterno, nel tempo astratto che da forma alla figurazione e tutto avvolge nell’esistenza di un sogno, forse ricordo di stagioni oramai
passate di uomini che vanno e artisti che restano. Con affetto, vecchio mio.