L’Amministrazione Comunale di Ascoli Piceno in questi ultimi anni si è molto impegnata
nella promozione della città e nella creazioni di importanti occasioni culturali, rinnovando
i musei storici ed allestendone di nuovi, come il Museo dell’Arte Ceramica ed il Museo
dell’Alto Medioevo, ospitato presso il Forte Malatesta. Nel quadro dei lavori di restauro
realizzati presso la Pinacoteca Civica, si offre oggi la possibilità, grazie alla generosità di
Maria Grazia Di Filippo, di arricchire le collezioni artistiche comunali con il dono di una
rara natura morta del maestro Carlo Cupini, artista legato alla città di Ascoli Piceno da
una lunga frequentazione. L’opera donata completa l’itinerario sulla natura morta italiana
che inizia negli ambienti del piano nobile della Pinacoteca, dove sono collocate le
tele realizzate dagli specialisti sei e settecenteschi, e prosegue al secondo piano con le
composizioni eseguite dai pittori che nel corso del Novecento hanno inteso rinnovare un
genere pittorico destinato al grande successo. Siamo certi che questa tela possa rappresentare
un nuovo motivo di interesse nei riguardi dei visitatori che sempre più numerosi
frequentano i musei comunali di Ascoli Piceno.
Il Sindaco
Avv. Guido Castelli

Carlo amava moltissimo Ascoli Piceno, il luogo dove ci eravamo incontrati, in occasione
di una sua mostra, presso il Palazzo dei Capitani, nell'anno 1993.
Questa città lo aveva accolto con grande calore ed apprezzamento per la sua pittura
per cui ci tornava sempre volentieri ed avrebbe voluto donare un suo dipinto ad uno dei
Musei del Comune. Grazie ad un idea del Professor Stefano Papetti, Curatore delle collezioni
comunali di Ascoli Piceno, il desiderio di Carlo, ora, si realizza con l'esposizione permanente
di una sua importante opera intitolata:” Il Fedone”, presso la Pinacoteca civica.
Carlo mi aveva donato questo dipinto, nel 1998, in occasione di una sua mostra a Firenze,
in quanto per Lui aveva un profondo significato: in essa erano espressi il suo pensiero sulla
vita e sulla morte ed il suo sentire nella loro totalità.
Per questo motivo ho scelto di donare “Il Fedone” alla mia città alla quale va la mia immensa
gratitudine nelle persone del Sindaco, Avv. Guido Castelli e del Professor Stefano
Papetti che hanno consentito la realizzazione del desiderio di Carlo.
Maria Grazia Di Filippo Cupini

I musei marchigiani conservano notevoli testimonianze legate alla natura morta, un genere pittorico
che conobbe grande diffusione a partire del XVII secolo e la Pinacoteca Civica di Ascoli
Piceno può essere considerata uno dei poli espositivi più importanti in questo campo: nella città
picena ebbe infatti i suoi natali la celeberrima Giovanna Garzoni (1600-1670) che dipinse presso
la corte ducale di Firenze alcuni splendide nature morte su pergamena, opere nelle quali si colgono
gli interessi botanici e naturalistici cari ai sovrani toscani.
Nelle sale del Palazzo dell’Arringo sono oggi esposte le nature morte del pittore emiliano Cristoforo
Munari, le popolari “cucine” dell’imolese Giovanni Domenico Valentino e le grandi tele
con cacciagione eseguite da Monsù Aurora, considerato nella Roma del Seicento un vero specialista
in questo particolare genere di composizioni raffiguranti uccelli ed altri animali morti.
Questo percorso tematico prosegue poi presso la Galleria d’Arte Contemporanea dove sono
esposte le nature morte dei maestri del Novecento, come De Pisis, Saetti, Morandi e Licini.
Non poteva dunque mancare, a completare questo intrigante panorama, anche una espressione
legata all’arte contemporanea e questo vuoto è stato riempito grazie alla generosa donazione
di una tela del maestro romano Carlo Cupini intitolata “Fedone”: dopo la prematura
scomparsa dell’artista, Maria Grazia Di Filippo si prodiga per mantenere vivo il ricordo del marito,
promuovendo iniziative mirate alla valorizzazione della sua attività, come testimonia la sala dedicata
alle opere di Cupini allestita a Duino, presso il castello dei Principi Della Torre e Tasso.
Muovendosi con originalità nel contesto del Realismo Magico, che ha segnato una delle stagioni
più interessanti del Novecento italiano, Cupini non si limita a riprodurre con una capacità
mimetica impressionante gli oggetti che popolano le sue tele, ma attraverso continui e capziosi
richiami evocativi offre all’osservatore l’occasione per condurre una analisi introspettiva venata
di nostalgia e di malinconia. Siamo certi dunque che la sua tela troverà nelle sale del secondo
piano della Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno, recentemente restaurate e riallestite, uno spazio
ideale per testimoniare la genuina vocazione artistica di un maestro contemporaneo.
Stefano Papetti

IL FEDONE di CARLO CUPINI
Il Fedone è del 1998, dopo i Girasoli e dopo Il Fonendo e il cuore di pietra. Mi preme anticipare
che è così intitolato perchè, tra gli oggetti ivi rappresentati, vi sono, tra varie altre
cose, tre libri di cui uno soltanto, col titolo che è, appunto, quello di FEDONE. Se nei Girasoli
vi è l’arte pura della rappresentazione naturale, nel Fonendo il rapporto tra scienza
e arte, qui, nel Fedone, il motivo fondamentale impressovi è la relazione tra Filosofia e
Arte. Mentre la dialettica dello spirito hegeliana si conclude nella triade arte (tesi), religione
(antitesi) e filosofia (sintesi), in Cupini si può benissimo individuare nella triade arte,
scienza e filosofia il sistema conclusivo ed esaustivo della cultura e delle attività umane.
La posizione della scienza al posto della religione è ben comprensibile, sol che si pensi
alla cronologia. Hegel teorizza la dialettica tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento,
Cupini svolge la sua attività pittorica in questi nostri anni. Anni, che hanno
già scontato, nel bene e nel male, lo sviluppo scientifico del secondo Ottocento e di tutto
il Novecento. Il Fedone, pertanto, riconduce l’estetica di Cupini ai motivi fondamentali
della filosofia. Egli rivela questo intento con una semplice e geniale rappresentazione.
Nel Fedone colloca al centro della prospettiva, in mezzo a vari altri oggetti, tre libri: di
cui due, ai lati, senza titolo e il terzo, quello centrale, invece, riportante sulla copertina
<FEDONE>. Anche i libri sono oggetti, allo stesso modo in cui lo sono i vari oggetti di vita
quotidiana. La natura si diversifica nella sua molteplicità e funzionalità. Ma solo un libro
fra tanti, per Cupini, è degno di essere individuato e ricordato; il Fedone di Platone, cui
bisogna aggiungere, d'ora in avanti, il Fedone di Cupini. Se l'opera pittorica di Cupini appartiene
alle nature morte, - anzi, "nature morte vive, o meglio vite silenziose", come già
nel duemila è stata definita da V. Sgarbi (CFR. CASTELLO DI DUINO, Carlo Cupini, a cura
di M. G. Di Filippo, Maltignano, Ascoli Piceno, 2012, p. 38) -, il Fedone di Cupini, nel mentre
conferma l'attualità e la vitalità del famoso dialogo di Platone, rivela, anche, che la natura
morta di Cupini è in realtà una forma di espressione del suo mondo culturale ed esistenziale:
natura morta, viva e silenziosa, ma anche, autoriflettente.
Mi corre l'obbligo, altresì, non per forma ma perchè molto sentito, di porgere un particolare
ringraziamento a chi mi ha invitato a questa manifestazione. In particolare alla Sig.ra
Di Filippo e agli organizzatori di questo incontro con in testa il Sindaco Guido Castelli. E'
per me una occasione di grande concentrazione, e di indimenticabili ricordi di tanti momenti
trascorsi insieme a Carlo Cupini. Tante volte, nei nostri incontri romani e pugliesi, abbiamo
parlato dei motivi e delle sensazioni che la sua pittura suggeriva. Ma ora, a
distanza di tempo, e con la scoperta della sua produzione poetica (di cui posso dire che
non faceva cenno ad alcuno e pour cause), si presenta nella sua totalità l'esperienza di

vita di Carlo Cupini. Egli, in effetti, attribuiva a questa vena poetica, che, pubblicamente,
preferiva esprimere nella forma pittorica, - ove il segno, più delle parole dei versi nascosti
e chiusi nel cassetto, può confondersi con le cose (verba secuntur res) -, la conferma
della teoria del fanciullino. Il primo ad esporla e teorizzarla fu Platone, appunto nel suo
Fedone.
Orbene, tutto il Fedone di Platone è centrato sul superamento della paura della morte.
L'occasione è data dall'imminente esecuzione della pena di morte, inflitta a Socrate.
Negli ultimi momenti della sua vita, infatti, Socrate, che ha dovuto bere la cicuta, gira intorno
al letto, finché non gli si appesantiscono le gambe, poi si stende sul letto e qui sente
bloccarsi il corpo fino alla fine dei battiti del cuore, ed ha solo il tempo di dire a Critone:
"o Critone noi siamo debitori di un gallo ad Asclèpio. dateglielo e non ve ne dimenticate"
(CFR PLATONE, Fedone, a cura di Manara Valgimigli, Editori Laterza, Bari, 1967, p. 104). Era
abitudine, infatti, che chi fosse guarito da una malattia avrebbe dovuto offrire ad Asclèpio,
dio della medicina, un gallo per ringraziarlo della guarigione. Il senso di questa ultima
volontà di Socrate è chiaro: egli intende la morte come guarigione dall'esistenza corporale,
intesa appunto come una malattia rispetto alla quale la morte funge da liberatrice.
La morte, così, non è da temere, ma da considerare una condizione necessaria perchè
l'anima possa accedere all'esistenza immortale, di molto preferibile a quella terrena. Socrate,
morendo in questo modo, dà prova e testimonianza di quanto precedentemente
aveva detto, come suo ultimo insegnamento, ai giovani presenti.
L'apposizione, allora, della parola FEDONE sul libro centrale del quadro di Cupini, coglie
l'aspetto essenziale del dialogo platonico. E' il libro che Cupini innalza rispetto a tutti gli
altri libri che si confondono, in quanto oggetti essi medesimi, con tutti gli altri oggetti naturali
rappresentati. Questo libro, invece, ha qualcosa che lo tocca inmodo del tutto personale.
Per cogliere l'aspetto motivazionale personale del Fedone di Cupini è necessario
ripercorrere brevemente il Fedone di Platone. I dialoghi di Platone si sogliono distinguere
in dialoghi giovanili o socratici, della maturità o costruttivi, della vecchiaia o dialettici. Il
Fedone è un dialogo della maturità: la fase del pensiero di Platone, in cui la sua riflessione
si sostanzia della dottrina delle idee, le quali sono la causa e il fine della realtà in divenire,
esse stesse realtà vere e valori. Ma è nel Fedone che Platone affronta il tema centrale
della morte. La serenità, con cui Socrate l'affronta di fronte ai suoi amici e discepoli, è la
conferma finale del fatto che di fronte ad essa non si deve aver paura, se intesa così
come la intende Socrate. E' un tema che attraversa tutta la storia dell'umanità. La morte
oscilla, nella sua soluzione, tra due opposizioni: l'immortalità dell'anima e la fine perentoria
di anima e corpo. E' noto che con l'avvento del Cristianesimo prevale la soluzione dell'immortalità
dell'anima, allo stesso modo del Fedone di Platone. Ma con una grande e

rilevante differenza, che possiamo cogliere nella famosa parabola del ricco epulone nel
Vangelo di Luca 16, 19-31. Anche qui le anime del ricco epulone e del mendicante Lazzaro
sopravvivono alla propria morte. L'una, quella del ricco epulone, "stando all'inferno
tra i tormenti", l'altra, quella del mendicante Lazzaro, posta "accanto ad Abramo " in Paradiso,
vivono gli effetti della loro vita terrena. A quella del ricco epulone, vissuta nei bagordi
dei banchetti quotidiani, spetta la pena del fuoco eterno, a quella del mendicante,
tutta trascorsa standosene steso per terra con le piaghe leccate dai cani ed attendendo
invano qualche briciola dal ricco epulone, spetta, invece, la gioia paradisiaca. La mancanza
di amore per il prossimo (il mendicante Lazzaro, in questo caso) aveva provocato
nel ricco epulone la condanna dell'anima per l'eternità e la ricompensa paradisiaca per
il mendicante. Per Socrate, invece, l'anima immortale era destinata a reicarnarsi in nuovi
esseri. Tanto più saranno spregevoli tali esseri in cui tornerà a incarnarsi l'anima, allontanandola
sempre più dalla conoscenza del bene, quanto più nella sua vita precedente
sarà stata legata agli interessi e consuetudini del corpo. Solo la Filosofia, invece, che permette
di cogliere la fallacia e l'inganno del corpo, prigione dell'anima, redime l'anima e
la libera dalle catene corporali attraverso la contemplazione del vero, del bene e del divino.
Se per il Cristianesimo l'amore per il prossimo impedisce la condanna dell'anima per
l'eternità, per il Fedone di Platone ciò che permette all'anima di avvicinarsi al puro e al
divino è la conoscenza filosofica. Ma per ambedue l'immortalità dell'anima è un presupposto.
Socrate la dimostra attraverso l'argomento dei contrari e la reminiscenza. Senza
addentrarci nel merito di queste dimostrazioni, non possiamo esimerci, però, dal proporre
i nessi validi a dimostrare come il Fedone di Cupini e quello di Platone siano determinanti,
da un lato, per le forme artistiche di Cupini e, dall'altro, per la individuazione dei temi,
presenti nel Fedone di Platone, che sorreggono la formazione poetica e pittorica di Cupini.
In primo luogo è necessario rilevare che la formazione culturale di Cupini, oltre quella impressavi
dal normale corso di studi presso i Gesuiti di Mondragone e la Facoltà di Medicina
presso l'Università di Roma, avviene in un contesto storico caratterizzato culturalmente
dal binomio Pascoli - D'Annunzio, ovvero dal contrasto tra il fanciullino e il superuomo,
così come D'Annunzio lo intendeva e praticava. I poli di tale contrasto sono presenti,
nel Nostro, in due diverse forme di produzione estetica: il fanciullino nella pittura e il superego
nella poesia. Ovviamente non mancano le reciproche tracimazioni dell'uno nell'altro
e viceversa. Laddove, infatti, nel Fonendo e il cuore di pietra, quest'ultimo rappresenta
la persistenza dell'ego nel cuore ormai pietrificato, nel Fedone il pittore manifesta la sua
aderenza alla poetica del fanciullino di Pascoli. Ma non attraverso Pascoli, bensì attraverso
la sua prima formulaziome di duemila e quattrocento anni addietro, che Platone

fa esporre da Cebète nel suo Fedone. Chi è Cebète? Egli è il personaggio del dialogo
che pone le domande più argute e cogenti a Socrate. Mi soffermerò soltanto su quelle
che riguardano la teoria del fanciullino. Questa prende corpo quando Socrate rileva che
Simmia, un altro personaggio del dialogo, e Cebète continuano ad avere paura della
morte, nonostante abbia loro dimostrato che l'anima non può morire col corpo se è vero
che essa deve continuamente trasmigrare da un corpo all'altro sulla base dell'argomento
dei contrari e che è in grado di apprendere in virtù della reminiscenza. Ed allora, Socrate
si predispone a soddisfare il loro " piacere di investigare più a fondo", in quanto, dice loro,
siete "come i ragazzi, con la paura addosso che veramente, quando la vostra anima sarà
lì per uscire dal corpo, il vento la soffi via e la disperda del tutto" (CFR. PLATONE, Fedone,
op. cit., p. 104). A questo punto Cebète risponde richiamando proprio il fanciullino: "Proprio
come se s'avesse paura, disse, vedi di persuaderci e di farci animo, o Socrate; o, meglio,
non come s'avesse paura noi: ché c'è, forse, anche dentro di noi, come un
fanciullino, ed è lui che ha di questi sgomenti. Tu, dunque, questo fanciullino, cerca che
muti animo, e si persuada a non aver paura della morte come dell'Orco" (Ibidem, pp.
104-105). Cebète, senza accorgersene, sta dissociando se stesso, allorquando dice che
ad aver paura <non siamo noi>, ma quello che dentro di noi sta <come un fanciullino>.
Anche il fanciullino che sta dentro Cupini è preso dallo stesso sgomento: la paura di fronte
alla morte. Se, fin dalla filosofia greca ed oltre (CFR JACQUES CHORON, La morte nel pensiero
occidentale, tit. or. The Death and the Western Thought, Mac Millan, New York, 1967,
trad. dall'ing. di Giovanni Cataneo, De Donato Editore, Bari, 1971), la paura della morte
era ed è il motivo centrale della filosofia, il cui scopo diventa quello di vincere la parte irrazionale
dell'anima, dominata dalla paura e dallo sgomento del fanciullino che sta dentro
ciascuno di noi, attraverso l'educazione e la conoscenza del bene e del divino; tale
paura, nell'arte, diventa la fonte della creatività estetica in tutte le sue forme. Si prendano,
ad esempio, le due composizioni poetiche A Mezzogiorno* e Pensiero*, (*poesie di seguito
riportate) dalla raccolta postuma di Cupini. Nel primo è evidente la limpidezza descrittiva
di ciò che può accadere nel fulgore della vita di ciascuno, (metaforicamente
rappresentato dal sole brillante del mezzogiorno), come il ricordo che riesce a vedere
"nel buio di tanta luce", piangere nella solitudine in mezzo al rumore della vita, la spensieratezza
in cui l'oblio giunge a dimenticarsi della vita e delle sue varianti di dolore e di piacere;
e, tuttavia, "A mezzogiorno si può morire". La paura della morte si esprime anche
nella consapevolezza che essa può cogliere ciascuno nel suo pieno vigore vitale. Il fanciullino,
in questo caso, sublima la propria paura attribuendole l'origine e la fonte del poetare,
come per Pascoli. Nel componimento Pensiero, invece, la paura della morte è
superata con la dottrina dell'immortalità dell'anima; Cebète lascia il posto a Platone

Come questi fa dire da Socrate a Cebète che la conoscenza, ovvero la filosofia, avvicina
l'anima dell'uomo al divino facendola partecipe dell'immortalità, così Cupini, dopo avere
sperimentato il proprio fanciullino, si convince della propria immortalità perchè non solo
il pensiero gli ha detto che non morirà, ma egli stesso dice che non morirà mai del tutto,
"perchè già vivo in parte nell'universo dove raggiungerò il mio pensiero dopo la morte".
Più chiaro non poteva essere il Nostro. In questi versi v'è la lezione socratico-platonica.
L'insegnamento di Socrate a Cebéte consiste, come per Cupini, nel fare del pensiero la
motivazione fondamentale dell'immortalità dell'anima. La teoria del fanciullino si tramuta
in stimolo alla riflessione filosofica. Non solo: Cupini sa che non morirà perchè, da vivo,
"vive in parte nell'universo". Ciò che vive nell'universo è la conoscenza razionale conseguita
da vivo e, dopo la morte, continuerà a vivere perchè la sua anima si ricongiungerà
nell'universo col suo pensiero, ovvero con la conoscenza di sé e del mondo. Il fanciullino,
in virtù dell'educazione e della razionalità, può vincere l'inclinazione irrazionale e tendere
al bene. Tutto ciò lo dice Platone nel Fedone duemila e quattrocento anni prima che il
Pascoli individuasse nel fanciullino la fonte del poetare. Come ho cercato di dimostrare,
le due valenze sono presenti in Cupini, con una propensione nei confronti del fanciullino
come fonte della educazione alla razionalità. Ma, nel Fedone di Cupini, v'è qualcosa di
più del fanciullino, inteso sia come fonte del poetare sia come fonte della riflessione filosofica.
V'è la potenza della rappresentazione pittorica come visione della realtà, e non
come imitazione di essa nel senso platonico. Vi è un passo del Fedone in cui Platone fa
dire a Socrate quanto segue: "la filosofia, prendendo ad educare in siffatte condizioni la
loro anima, cerca a poco a poco di guidarla e addirittura si adopera di liberarla dal
corpo, dimostrandole che, come è piena di inganno la indagine mediante gli occhi, così
è piena di inganno l'indagine mediante gli occhi e gli altri sensi; e la persuade a tenersi
lontana da questi sensi se non in quanto le sia impossibile non usarne;" (Ibidem, pp. 115-
116). Premesso che l'oggetto del vedere con gli occhi appartiene al mondo delle apparenze,
mentre quello del vedere con la mente appartiene al mondo delle idee
incorruttibili ed essenziali, consegue che indagare con gli occhi è ingannare l'anima; pertanto,
consegue anche la condanna dell'arte visiva, come dice nel X Libro della Repubblica,
in quanto imitazione degli oggetti visibili, a loro volta copia della realta incorruttibile
delle idee. Insomma, l'arte, per Platone, quella fondata sugli occhi in particolare, è da
condannare.
Ma, allora, Cupini, che nel suo Fedone raffigura le molteplici cose terrene esistenti e, tra
queste, tre libri, di cui uno soltanto con il titolo, rivela il suo attaccamento alla realtà visibile,
in netto contrasto con la predetta teoria estetica di Platone. Da un lato il riconoscimento
della Filosofia come aspirazione all'immortalità nel senso socratico-platonico e dall'altro

il molteplice della vita quotidiana <in quanto impossibile non usarne>, così come lo era
per Cupini. Inoltre, va detto a riguardo che l'apposizione della parola Fedone su di uno
dei tre libri, quello posto al centro della prospettiva di tutto il quadro, non è un semplice
atto di scrittura. In quella semplice parola scritta si annida il succo del pensiero. Quel suo
atto di scrivere la parola Fedone sul libro è la comunicazione dell'autore, a tutti i possibili
fruitori della visione di quel quadro, di tutto il mondo di Cupini. E' ciò che fa la differenza
con tutte le altre cose rappresentate. Tutta l'ermeneutica tradizionale, intesa come comprensione
del testo, si trasforma in "decostruzione", ovvero nell'obiettivo di <smontare> il
senso di un testo per individuarvi ciò che l'autore, Cupini, ha disseminato in quell'opera. Il
pensiero che si nasconde dietro e sotto la parola scritta di Fedone non è separato da
tutti gli altri sensi rappresentati, bensì trasforma e modifica quegli stessi dati in una imprevedibile
lettura del significato dell'opera in cui si può riscontrare una nuova sintesi ermeneutica
non più legata al solo testo, ma a tutte quelle componenti di vita, di studio e di
elaborazione dell'artista. Tra queste v'è l'opzione (un atto che è come una scelta di vita)
di Cupini per l'aspirazione all'immortalità, e, nello stesso tempo, vi è palese "il rinvio" ad
altro come in un giuoco delle differenze che una semplice parola scritta indica allo spettatore.
In un contesto tradizionale di natura morta, ancorché viva e silenziosa, si presenta
, senza alcuna preventiva premeditazione, l'elemento innovativo della scrittura come
atto di autodenudamento della propria vita, interiore ed esteriore, e della molteplice realtà
imprescindibile ed ineliminabile. Il <pensiero della scrittura> di Jacques Derrida offre,
così, un livello ermeneutico del Fedone di Cupini, che lo proietta come modello di arte
contemporanea in linea con le riflessioni postrutturalistiche e postmoderne. In esso, altresì,
ogni fruitore è costretto da quella parola scritta a fare i conti con se stesso, circa la propria
capacità di interrogarsi in merito al sottofondo semantico della medesima: insomma lo
spettatore diventa anch'egli autore, rifacendo lo stesso percorso psico-analitico all'incontrario;
e, cercando di capire se stesso, sta decostruendo l'opera. Oltre a ciò, vi è un altro
elemento da evidenziare: per Cupini è impossibile non usare il pennello per bloccare e
fissare il molteplice. Come l'anima dell'uomo ha paura della morte e punta all'immortalità
o con la filosofia (cultura classica) e con l'amore verso il prossimo (insegnamento evangelico
di Gesù), così l'arte pittorica di Cupini vuole attribuire alle cose la immortalità attraverso
la loro cattura nel momento in cui l'occhio dell'artista le coglie e le fissa in un
dato momento e spazio. Certo, Cupini, autore del quadro Fedone, non è il Platone del X
Libro della Repubblica e dello stesso Fedone. Ma è, sicuramente, molto più vicino al Platone
del Fedro, ove l'arte è posta "come divina mania", come partecipazione dell'artista,
unitamente alla divinità, al tentativo di rendere bello anche l'esistente. Premesso che belle
sono tutte le cose rappresentate, almeno rispetto alla rozzezza degli originali (le cui im-

perfezioni acquisiscono, nella riproduzione artistica, valore di veridica presenza del dato
riprodotto), il problema che si pone è il seguente: se l'esistente, secondo Platone, è destinato
alla corruzione e, pertanto, tiene lontano l'uomo dalla sua aspirazione all'immortalità,
come conciliare quell'esistente con un'arte, qual è quella di Cupini, che ne fa centro e
motivo fondamentale della sua rappresentazione? Ecco, Cupini, in realtà, innalza l'esistente
ad entità che la sua arte sublima fino a sottrarla alla corruzione e alla fine, cui
tutte le cose sono comunque destinate, prima o poi. Non è difficile individuare in questa
tensione del molteplice verso l'eternità che la pittura di Cupini riflette, un sottofondo realista.
Se è così, non è altrettanto difficile, allora, riconoscere, in questo sottofondo, una
conferma del "Nuovo Realismo" di Maurizio Ferraris. Vi è qualcosa di "inemendabile" nelle
cose con cui entriamo in contatto quotidiano che dà certezza alla nostra vita e la sottrae
a qualsiasi forma interpretativa che la riduca a sogno o a velleitarismo gnoseologico indifferenti
all'evento storico dato. L'essere e il sapere si presentano nella loro separatezza
e inconfondibilità ed è sufficiente scrivere su di una cosa una parola perchè l'epistemologia,
il sapere filosofico, si ponga al centro dell'attenzione in un contesto rappresentativo
dominato dalle cose. A questo riguardo l'"Ontologia critica" di Ferraris, per Cupini, non è
in contrasto nè si confonde con il sapere filosofico, ma convivono entrambi nella sintesi
estetica del "Fedone" di Cupini, in cui realtà molteplice e conoscenza si combinano nella
produzione dell'autore attraverso le sue mani ed il pennello. Accade, cosi, che poststrutturalismo
di Derrida e nuovo realismo di Ferraris trovino nel "Fedone" di Cupini motivo di
compenetrazione e di reciproco rimando.
Mi sia permesso, in conclusione, una personale riflessione sul temine <ontologia> che, se
anche, critica, trovo in continuazione con la tradizionale Ontologia come scienza dell'ente
e delle cause prime. Essa rinvia sempre ad una scienza dell'essere di aristotelica
memoria. L'essere delle cose, rappresentate da Cupini, si qualificano da sè come esseri
viventi nella percezione artistica. Quest'ultimi costituiscono il presupposto, non solo dell'arte,
ma di ogni relazione umana. La religione, la politica, l'economia, il diritto , la fisica,
ecc. ecc. sono la plastica conferma della loro ineluttabilità. Le cose parlano agli uomini
e gli uomini si relazionano tra di sè e con le cose. Nel nuovo Realismo mi sembra che
manchi l'aspetto fondamentale delle cose: senza di esse, non solo non vi sarebbe alcuna
epistemologia, ma la stessa vita umana sarebbe impossibile. Nè rivelano alcuna passività,
se è sufficiente l'apposizione della parola <Fedone> su una cosa a forma di libro, per
schiudere i mondi, non solo del pittore Cupini, di Socrate, di Platone, del Cristianesimo,
ecc. ecc., ma anche degli autori del pensiero occidentale che si sono cimentati con la
morte nel corso di questi duemila e cinquecento anni. Per questo motivo ho fatto ricorso,
altrove, al termine Onticità, distinguibile in <identità ontiche> e <differenze storiche>. Le

prime indicano ciò che è sempre identico a sè medesimo nella propria esistenza reale,
diversificandolo dalle modificazioni che nel corso della storia umana possono intervenire
senza, però, che ne tocchino la consistenza e che chiamo, appunto, <differenze storiche>.
Non posso non richiamare come esemplificativo di questo binomio dell'onticità
("identità ontiche" e "differenze storiche") un ricordo legato allo stesso Carlo Cupini,
quando venne a trovarmi a Sava, in provincia di Taranto, verso la metà degli anni Ottanta.
Nel corso di un limpido tramonto primaverile meridionale eravamo sulla terrazza
della mia abitazione, posta all'ultimo piano e da cui si ammirava tutto il paesaggio circostante
a 360° gradi. La pianura, inverdita dai vitigni di Primitivo, circondava tutte le case
del paese con i tetti vari, ma continui, che si dilungavano tutt'intorno. Al centro eravamo
noi, che guardavamo da posizione privilegiata rispetto a tutto ciò che ci stava intorno.
Ad un tratto, Carlo si abbassa, piegandosi sulle ginocchia e poggiandosi con le mani sul
parapetto, quasi a fermare con forza il suo sguardo, proiettato in linea orizzontale davanti
a sè fin là dove la penetrazione dei suoi occhi poteva arrivare, e mi disse: " Armando, in
questo momento i miei occhi, con un unico sguardo, stanno cogliendo, nello stesso momento,
il cielo e la terra". In quel momento, il cielo e la terra gli apparivano uniti nel suo
sguardo, rivolto all'immenso, e che solo i suoi occhi riuscivano a compenetrare nello spazio.
La oggettività del creato gli si parava dinanzi, ma egli anelava a fissarla così come la
percepiva. Nello stesso momento pensai solo di dirgli che ciò che vedeva sotto il cielo
erano, in prospettiva, i tetti delle case, da cui eravamo circondati, anche se posti leggermente
sotto la nostra visuale. Ma questo mio intercalare non lo distolse minimamente
e mi disse soltanto, mentre i suoi occhi continuavano a fissare in lontananza: " Prima o
dopo, qui ci devo tornare con tela, colori e pennelli" . Ebbene, ora posso dire che la terra
e il cielo, per Cupini, erano e sono il dato oggettivo, ciò che è sempre identico a se stesso
sin dall'inizio dei tempi e fino alla fine, ovvero è l'identità ontica di quelle entità, che tutti
noi chiamiamo terra e cielo. Ma i tetti delle case non sono sempre gli stessi; essi mutano
con i gusti, con l'architettura, con la struttura medesima di ogni casa e sono le differenze
storiche esplicantisi sul dato oggettivo, ineliminabile, irriducibile, inemendabile della terra.
Cupini, nella sua arte, aspira a bloccare tutte le differenze, ovvero tutte le cose, nella
loro fissità quasi a trarre sempre, dall'identità ontica della terra e del cielo, tutte le differenze
delle cose e della storia che, tramite esse, si realizza e si svela.
Armando Pichierri