Carlo Cupini
di Ferdinando Anselmetti - Quelli che contano- giugno 1994
Nato a Frascati, dove è vissuto fino all’età di vent’anni, attualmente vive a Roma.
Si laurea in medicina ed esercita la professione con impegno. Solo verso la fine degli anni ottanta decide di dedicarsi interamente alla pittura,
fino ad allora presente nella sua vita solo come parentesi strettamente personale.
Le sue opere, incentrate sul tema della natura e dell’uomo, riscuotono notevoli consensi. Da ricordare le ultime personali realizzate nel 1993
presso il palazzo dei Capitani ad Ascoli Piceno, con il patrociniodell’assessorato alla cultura del Comune, e nel 1994 presso la galleria Studio del Canova a Roma e al castello Aragonese
diTaranto, con il patrocinio dell’assessorato alla cultura della Provincia. In un esistenzialismo cristiano, vissuto nella consapevolezza intellettuale di una gesuitica congrega, si formalizza la
pittura di Carlo Cupini, nata da un istintivo senso si elevazione che informa e caratterizza anche la sua professionalità, sviluppatasi nell’alveo della scuola di Ippocrate. Una sensibilità tesa
alla ricerca del vero e sublimata da una raffinatissima capacità pittorica, tanto più convincente in quanto frutto di sensazioni reali, recepite in quelle corsie il cui dolore inevitabilmente
coinvolge, prima o poi tutti, nei suoi numerosi malanni.
L’intellettualità di Cupini, tradotta in pittura, si estrinseca in una vera e propria filosofia, resa efficace dalla circostanzialità
dei fatti, che cerca di ricavare tanto un nutrimento per lo spirito quanto un rimedio farmacologico per la materia. E trasmette il messaggio ai suoi interlocutori, siano essi i malati o gli
aspiranti tali, con un realismo vissuto e osservato nel nascere e nel morire dell’uomo, in quelle pulsioni in cui la vita rimane come un attimo in sospeso. Il tutto analizzato pittoricamente con
prospettive prive di supporti che non siano colti nel vivere, da magistrali tocchi di colore che, nel contesto della forma, emergono come spiragli di luce, nel segno evidente di una speranza
residua ma ancor forte. Con quella stessa passione con cui il malato attende dal farmaco un lasciapassare alla guarigione futura. Da queste logiche osservazioni, compenetrate nell’intimo come
ogni male oscuro, Cupini parla attraverso gli oggetti: interpretandone l’aspetto sulla esperienza di vita del modello, osservandone i risvolti con pacatezza
e serenità in una giusta luce che è luce ideale e riscontro tangibile della sua presenza artistica. Nascono così le sue splendide composizioni, oggettivate in un simbolismo profondamente
filosofico; nella metafora accattivante attraverso cui l’occhio riesce a dar vita all’oggetto e a ravvivare, con pennellate inconfondibili, la luminosità del colore, in un gioco di ombre di
fiammingo prodigio. Al di fuori delle composizioni soggettive nelle quali l’artista dedica particolare attenzione al minimo dettaglio, in particolare quelle nature morte composte con una
disposizione d’animo classica degna della precedente rivisitazione di un Tommasi Ferroni, desidero soffermare l’attenzione su dipinti ugualmente interessanti anche se concepiti in deroga ai suoi
interessi canonici. Sono quelle opere che rivalutano la ricerca sulla tradizione popolare, in particolare nelle sue proverbiali espressioni romanesche e partenopee, incentrate perlopiù sugli
amuleti della dea fortuna.
Mi riferisco ad esempio a una gioviale composizione, formalmente ossequiosa ai canoni classici della natura morta, ma in realtà
vivacizzata in elementi caratterizzanti: un peperoncino talmente rosso da farsi avvertire, accompagnato da teste d’aglio bianchissime, in una ricerca di contrasto che interpreta il senso
taumaturgico del talismano popolare. Nel contesto di così variate interpretazioni si avverte però sempre, nella pittura di Cupini, l’anelito del risorgere; in quella forma in cui la luce accusa
ricerca, nella composizione in cui da questo tentativo si sviluppa una pittura accattivante, che trasforma a suo modo sia il classico che il moderno in una miscela che ci stimola a un ricordo
piacevole. Una tecnica che fa scuola per la sua ansietà di ricerca e di appagamento e che si sublima nell’impatto intellettivo della scoperta, nella reinterpretazione della realtà delle cose,
nella filosofia dell’atto pittorico. Spregiudicata forse nel sortilegio partenopeo o nell’autenticità romana, ma sempre coerente con la necessità di un tempo che non disdegna il passato ma è tesa
verso il futuro, sia nel dipingere che nell’essere medico.
Il pittore del silenzio
di Lorenzo Bonini - Art Leader n. 35 Ott./Nov. 1997
Sul tavolo l’attiva falce con spighe di grano maturo, una caraffa in rame con un boccale smaltato di color rosso e il cappello di paglia idealmente forse lo stesso
che portava Van Gogh, quando scorazzava, sprofondando nella campagna provenzale assolata e cercava se stesso - e la sveglia che scandisce implacabilmente il tempo.
Quello che primariamente colpisce nella pittura di Carlo Cupini, non è soltanto l’evidenza delle composizioni, ma il suo imporsi come presenza immediata, senza
dubbio alcuno. Il sentimento di certezza che lo pervade, rende indubitabile la realtà fenomenica: è così fiducioso il suo atteggiamento, che la lucidità ottica con la quale riprende i tempi del
suo quotidiano si propone subito come serena fedeltà alla consuetudine, all’abitudine estetica, con gli oggetti bloccati a interpreti ottimali di sensazioni e ricordi.
Cupini è un costruttore di immagini, un minuzioso chiarificatore in termini scientifici, percettivi, i suoi occhi sono spalancati e vigilano da un ipotetico punto di
vedetta, un luogo privilegiato della mente e del pennello, gli oggetti ripresi sono esposti, portati In luce, perché più evidente sia il rapporto con l’atmosfera, con il loro più vantaggioso e
affascinante punto da lettura.
Una semplice contrapposizione pittorica come espediente scenografico o un desiderio di confronto tra due universi?
Quello immanente delle cose, vitalmente reale o empirico, misurabile, o l’indistinto infinito, quello che sfuma oltre l’indefinibile orizzonte del mare, oppure
quello in proiezione cosmica, oppure ancora, quello inattingibile e metaforico delle profondità psichiche? Le sue nature morte, con scorci arditi e complesse architetture di composizione, sono
solo in verità pretesti per raccontarsi attraverso un perfezionismo ed una abilità fluida e pulita, per cedere un po’ narcisisticamente anche a racconti con eccessi di passione, ma sempre con un
linguaggio temperato, accorto, intellettualistico, che sommano la contingenza alla libertà compositiva, l’esperienza sensibile al virtuosismo, l’elusione alla sorpresa. Nelle sue tele c’è
silenzio, e non soltanto quello desolato della natura morta, pur evocandola, della presenza umana, ma quello che è spoglia essenzialità, asciuttezza dell’essere (vedi Girasoli 1991), dove si può
azzardare, nell’interpretare la spiritualità di questo dipinto, che non differenzia affatto da una “maternità” a da una “deposizione” del ‘600: l’evento del dramma è identico, qui i girasoli sono
recisi, maturi, poggiano svigoriti sul piano, il tempo li ha spogliati ormai dai colori sgargianti, ma tra i componenti di questa ‘famiglia’ vi è ancora chi, impetalito di giallo, resiste, ci
guarda e ci interroga con riserbo, sommato a tanta raffinata e garbata eleganza, ben accordata con lucidità e intensità cromatica.
Per questa atmosfera come la quiete, il silenzio venato di lirismo che abita le cose segretamente intime, esiste per Cupini una situazione irresistibilmente
empatica. Nelle sue opere c’è misura, proporzionalità e armonia che mirano, al di là del fenomeno, a cogliere l’umana tenera poesia delle cose, il loro trasfigurarsi in testimonianze del ricordo,
in oggetti del sentimento.
Il vero e l’oltre frontiera
di Renato Civello, 1993
Conservare intatto lo stupore del fanciullo vichiano, a dispetto di un umanesimo ampio e filtrato che sconfessa la sterilità del paradigma e dell’occasione vuota di
presagio; cercare le persistenze che non dileguano, le misteriose latitudini dell’oltre sui mille risvolti del mondo fenomenico; vivere la “cronaca” esistenziale per trarne, di là
dell’accadimento effimero, la “storia” della propria sussistenza: ecco la vocazione, appassionata e coinvolgente -che è poi il corollario di una identità sempre disposta a privilegiare il sensus
inditus di pascaliana memoria, di Carlo Cupini. Pittore a pieno titolo, tanto da far ritenere non prioritario, e ormai nemmeno simbiotico, l’habitus professionale del medico.
La realtà è il suo unico referente. Ma il suo sguardo scruta a fondo dentro il labirinto delle spoglie, cercando gli esiti non illusori. Un artista che pensa; ma nel
segno della poesia e della patèia e quindi non razionalizza mai, riducendolo a una mera equazione speculativa, il proprio incontro con le cose. Per questo è lontanissimo dai mille calligrafi del
registro mimetico, dagli assuntori di una visualità angusta ed asettica. Certo, il ritorno alla natura e al “buon mestiere” proclamato, sul finire del secondo decennio del secolo, da Marchand, De
Segonzac, La Patelière, e poi, ancora in Francia, nel 1945, da Brianchon, Oudot, Legueult, e qui da noi, negli ultimi anni Quaranta, dagli Sciltian, dagli Annigoni e dai Bueno, lo avrebbe trovato
entusiasticamente d’accordo; per reagire, in tal modo, in nome di un’arte destinata all’uomo e non ai fantasmi, alle dissacrazioni anarchiche delle prime avanguardie. Ma, vorrei dire, con in più
quella urgenza metafisica, quello straniamento a volte drammatico dalla casualità empirica che rendono “altro” e più significante il rapporto con gli aspetti dell’essere. E’ tale condizione
privilegiata che evidenzia in positivo il problema della qualità; senza trascurarne, ovviamente, in parallelo con i contenuti, il profilo linguistico che lo esalta e lo giustifica.
E non solo la purezza estrema del segno, l’ordine compositivo, il felice connettersi del timbro e del tono, coniugati a mezz’aria tra rigore classico e sentimento
romantico, ma anzitutto il differenziarsi della valenza materica: che non è subordinata al gioco alterno della cromia, ma riflette l’essenza oggettiva che vive sotto il mutevole atteggiarsi della
scorza. Per cui il metallo “si sente” nello smalto blu della vecchia caffettiera portafiori o in quello rosso di un boccaletto o sotto la vernice ocrata di un lume campagnolo (posto, in un
bellissimo quadro, accanto ai libri della sapienza, come una lanterna di Diogene finalmente immota, stanca di cercare invano l’uomo totale).
E cosi Carlo Cupini riesce a connotare come pochi altri, nella vicenda di una filologia dosata fino al più ossessivo puntiglio - ma non mai a discapito della
emozione primaria - il legno e la carta, la ceramica, il vetro, la materia vegetale, sia essa la foglia ancora verde di un limone e di una pannocchia di granturco, la canna ritagliata di un
paniere o la frutta carnosa.
Quello che conta, comunque, è il processo che comincia dopo l’apparire; nel momento stesso, per essere più esatti, in cui il dato sensibile e tanto alto e pungente,
cosi spazialmente e sostanzialmente calibrato da debordare dalla propria contestualità avviandosi verso gli orizzonti senza fine, verso il regno puro degli archetipi. Se questa vendemmia di
visioni smaglianti ed esatte ci appaga edonisticamente, al primo incontro, per la vivezza della fioritura formale, per la dissepolta memoria di un’antica domestica epopea, non c’è dubbio che ci
intricano favolosamente, anzitutto, le implicazioni spirituali. Potrebbe sembrare opportuno chiamare in causa, per certe consonanze esteticomorfologiche, il trompe-l’oleil sciltianiano. Ma il
vero di Cupini è, a ben vedere, autonomamente concreto ed allegorico; come le maschere di Tomea o le dechirichiane “vite silenti”, quelle nature morte neobarocche immerse in un’atmosfera
rarefatta e allucinata. Si veda la composizione con la falce, le spighe, il grande cappello di paglia, i due recipienti con le cadenze impalpabili dell’ombra e la sveglia che segna Alle cinque
della sera
(cosi potrebbe titolarsi il dipinto, trasferendo il tragico racconto di Lorca in una dimensione meduséa, in una fissità inquietante e metafisica); o il violino e gli
elementi complementari della tela Musica di silenzi, dove una moltitudine clandestina di larve affiora all’improvviso, per virtù d’arte, ad intramare sull’ oggi le indistinte nostalgie del
passato e le premonizioni dell’universale; o ancora il lume a petrolio, le melagrane spaccate e i tralci con l’uva di Presenze, dove l’oggetto-isola esce dal simulacro e si popola di vita
inattesa. E ogni altra “forma” di Cupini. Un intendere che sconvolge l’epitelio percettivo e continua ad interrogarsi. Con una ostinazione che è insieme ansia di conoscenza e vibrante rifugio
pittorico.
Corriere della Sera
di Enzo Bilardello - 27/11/1999
Per i nordici la pittura di oggetti o fiori recisi non si configura come “natura morta” quanto “natura ferma”, immobilizzata in un aspetto, ma con l’idea di una
continuità di vita sospesa e non arrestata.
A Cupini, che ha buona familiarità con la fotografia, interessa il genere pittorico della natura morta senza legarlo a connotazioni storiche, né al tema delle
“vanitas” il cui apice raggiunse nel seicento, né l’aggiornamento iperrealistico della nostra cultura.
Pertanto le sue composizioni svariano dalla ripresa simbolica dei libri in pergamena, dai fogli spessi, ma senza l’imitazione della scrittura, alle maschere come
simbolo del disinganno della vita, al violino come allegoria dei sensi come nel ‘600. Un cappello di paglia, delle spighe recise, dei vasi dall’evidenza smagliante, sembra che si sbalzino dalla
pittura del ‘800.
I colori, pur brillanti, evitano lo scatto acuto che ferisce gli occhi.
Il Pittore dell’inconscio
di Maria Cristina Calvaresi, 1997
(...) La sua pittura è figurativa, naturalistica, antica e moderna insieme, decisa a scandagliare i segreti del corpo e della psiche, nonchè le luci, le ombre e la
vita segreta degli oggetti, che popolano le sue nature morte, definite, con un’ingegnosa illuminazione da Grazia Lago, “viventi”. Sono esse nature morte, in cui tutto è pervaso dal patos, dalla
sensualità, che fa palpitare ogni particolare e lo connota di significati che vanno oltre il dato fisico, dell’evidente apparenza, per attingere alle simbologie del sogno, dell’infanzia e
dell’inconscio.
E’ un “itinerarium mentis in hominem”, quello proposto da Carlo Cupini nelle sue opere, un percorso a ritroso nella memoria, fino a recuperare, attraverso
oggetti-simbolo, il microcosmo domestico, il nido familiare, i cui potersi riposare e consolare dal dolore derivante dalla consapevolezza della vanità delle antiche illusioni, colpite a morte,
irrimediabilmente, dalla tragica ineluttabilità del Male. Ma la memoria dell’esistenza ormai trascorsa permette di illudersi nuovamente, di riacquistare la forza per guardare verso un orizzonte
più vasto ed ancora mai raggiunto (...)
Tuttavia il flusso della memoria e dei sogni non riesce a fermare il tempo, che scorre e consuma la cera delle candele delle nature morte di Cupini, in cui il
“memento mori” incombe costantemente sul desiderio, mai soddisfatto, di pace e serenità.
Un colpo di fulmine
di Roberto Gervaso, 2001
Non sono un critico, non sono, cioè, un esperto, un addetto ai lavori. Sono uno che guarda un quadro come guarda, o guardava, una donna. Che può essere bella,
bellissima, intelligente, intelligentissima, spiritosa, spiritosissima, e non piacermi, perché non e il mio tipo, perché non mi eccita, non m‘intriga. Insomma, non mi da emozioni. Ci sono pittori
celebri, celeberrimi, fondatori di scuole, maestri riconosciuti da giudici tanto autorevoli quanto oscuri, che non mi fanno ne caldo ne freddo, che guardo con indifferenza o, peggio, con
insofferenza. Di Carlo Cupini artista mi sono, invece, subito invaghito: è stato un colpo di fulmine. Davanti alle sue stupende nature morte ho provato quello che provo, o provavo, di fronte al
mio ideale di donna: la voglia, anzi la voluttà di guardarla, di assaporarla, divorandola con gli occhi del cuore e dello spirito, più penetranti di quelli del volto. Cupini, medico per
trent’anni, un bel giorno, bello per lui, bellissimo per noi, decise di chiudere studio e laboratorio e di aprire un’officina d’arte, di sostituire allo sfigmomanometro il pennello, all’anamnesi
la tavolozza, ai reagenti i colori. Se ci avesse pensato prima, ci avrebbe da un pezzo imbandito di tesori del suo talento. Che non è il talento di un dilettante di talento, ma il talento di un
professionista che per lustri ha fatto, da par suo, un’altra professione. Carlo non vuole sentirselo dire, ma noi, infischiandoci della sua ritrosia e della sua modestia, glielo diciamo lo
stesso. Anzi, glielo scriviamo.
Cupini è un maestro. Tanto più maestro, in quanto non ha avuto maestri, la sua pittura, che a qualcuno ricorda Caravaggio o il Morandi delle nature morte, è solo
sua. Frutto d’ispirazione e non d’imitazione, è unica nel suo genere. Maestro di se stesso, Cupini non fonderà mai una scuola. Nella sua c’è posto solo per lui.
L’arte figurativa di Carlo Cupini
di Grazia Lago - L’umanità 21/05/1994
Nella seconda metà del secolo molti pittori hanno continuato a disegnare, a prediligere tela e pennello, colore e figura.
A dispetto di Duchampe un ramo pentito dell’avanguardia abbandonò le fredde atmosfere della mente, tutte pensiero e sperimentazione nevrotica senza viscere né
sentimento approdando di nuovo, negli anni ottanta, al pennello e alla figura e battezzandola, con un punto di snobismo: neofìgurazione.
Può l’arte figurativa, naturalistica, antica e moderna insieme di Carlo Cupini, medico, che oltre i segreti del corpo e della psiche, scandaglia quelli dei volume,
della figura dell’ombra, della luce e della vita segreta degli oggetti inanimati oltre che degli ortaggi e dei frutti, denominarsi neofigurazione? No, perché Carlo Cupini non ha mai abbandonato
il gusto e la sapienza dell’arte tradizionale. Nella mostra di oli allestita di recente alla galleria Il Canovaccio di via delle Colonnette, ammiriamo una sinfonia di tinte calde,. dal rosso al
giallo arancio, le terre bruciate, i verdi, i fondali intrisi di blu e di grigio cupo, il color seppia, il marrone e i bianchi sabbiati. Non si tratta né di naturalismo, né di iperrealismo perché
queste tele hanno il dono raro della sensualità, senza quel certo distacco proprio delle nature morte caratterizzate dai colori trasparenti dei grappoli d’uva e delle belle forme prive di patos,
come. tutti gli oggetti, delle cosiddette nature morte.
Quelle di Cupini sono infatti, per definizione che gli è propria nature morte viventi. Un violino suona tra cielo e terra una sinfonia morente, il cappello del mago
erge la punta aguzza tra cannocchiali, melagrane e antichi testi affiancati da conchiglie e pinze da carpentiere. Una mano artigiana, orafa e febbrile muove il pennello sulla tela evocando i
bagliori della pittura olandese del seicento e sempre raffigurando la vita e la morte, tra “frutti freschi” e frutti appassiti, albicocche, mele, uve sultanine e rosse melagranate, racchiude la
scena tra le angustie del quotidiano, simbolizzate dal tavolo da cucina, o la dilata in un confine senza spazio né tempo che evoca l’Infinità e l’immortalità.
Cupini’ “scrive in catalogo Renato Civello” è lontanissimo dai mille calligrafi del registro mimetico, dagli assuntori di una visualità angusta ed asettica. Certo il
ritorno alla natura e al buon mestiere proclamato “sul finire del secondo decennio del secolo da Marchand, De Segonzac, la Pateliére e poi ancora in Francia, nel 1945, da Briancon, Oudot, Leguélt
e qui da noi negli anni Quaranta, dagli Sciltian, dagli Annigoni e dai Bueno. lo avrebbe trovato entusiasticamente d’accordo; per reagire, in tal modo in nome di un’arte destinata ai fantasmi,
alle dissacrazioni anarchiche delle prime avanguardie”.
Certo Carlo Cupini non dipinge come Annigoni e Sciltian caratterizzati, rispetto ai nostro, da una certa freddezza. Cupini dipinge frutta, fiori e oggetti con quella
carica di vitalità, sensualità e pathos che l’avanguardia, colpevolizzandole aveva sottratto al panorama della pittura perché aveva deciso, con Duchampe che giocare a scacchi nella scacchiera
della mente, anche solo con se stessi era arido ma molto nobile in quanto liberava (illusoriamente) l’uomo dalle passioni più animalesche, naturali e brute. L’uomo, non è per fortuna solo mente e
la passione per il mentale puro di Duchampe, col tempo avrebbe mostrato la corda. Per questo Cupini non dipinge come Annigoni e Sciltian ne come Ventrone. Dipinge come uno di coloro che
ricostruiscono l’uomo intero riparando il malfatto e il malinteso dell’avanguardia che per troppo tempo si è beata e crogiolata nei suoi necrologi in bianco e nero, narrative, art land, art o
altre aberrazioni battezzate in modo diverso dai critici difensori delle fredde e asettiche atmosfere della mente.
Cogliere la poesia umana delle cose
di Alessandra Lemma, 2000
Carlo Cupini è nato a Frascati e attualmente vive a Roma. Dopo la laurea in medicina e un lungo periodo dedicato all’esercizio appassionato della professione di
patologo decide di proseguire sulla strada della propria naturale inclinazione artistica: oggi è conosciuto come uno tra i più grandi pittori contemporanei di nature morte. “Nature morte” è
appunto il nome della nuova esposizione proposta dalla Fondazione Ignazio Silone che ha luogo in questi giorni ad Ascoli presso il Palazzo dei Capitani, Ospite di una città che ha già accolto in
passato diverse mostre personali di Cupini l’esposizione offre una vetrina di venti tele di cui quindici inedite. I temi ricorrenti che hanno fatto apprezzare Cupini dai più grandi nomi della
critica d’arte per la misura e l’armonia di forme e colori inquadrano le immagini di fiori, frutta, oggetti, lumi spenti che i dipinti riescono a vivificare attraverso luci e ombre elaborate
dall’occhio dell’artista cogliere l’umana poesia delle cose. Dopo sette anni dalla precedente personale allestita nel capoluogo piceno quest’ultimo evento artistico si sta realizzando per opera
della responsabile nazionale della sezione “Arte”, della Fondazione Ignazio Silone Maria Grazia Di Filippo che ha affermato la concreta intenzione di allestire un prestigioso progetto artistico
al Metropolitan Museum di New York.
Carlo Cupini è attivo nel settore da oltre un decennio e la sua peculiarità consiste nella coerenza con cui affronta dall’inizio la ricerca pittorica nell’ambito
delle nature morte.
Sulla scia del tema fondato sul rapporto natura-uomo prendono vita allegorie di foglie, frutti, libri antichi, boccali, conchiglie: simboli significanti che
pervadono il pittore di una sensibilità di fronte al vero sublimata da una raffinatissima capacità di dipingere, tanto più convincente in quanto risultato di sensazioni reali davanti a tutto ciò
che quotidianamente si offre alla vista». “il pittore del silenzio” è l’appellativo che Lorenzo Bonini ha attribuito all’artista: “Cupini è un costruttore di immagini, nelle sue tele c’è silenzio
e non solo quello desolato della natura morta, ma quello che è spoglia essenzialità come sì osserva nei “Girasoli” del 1992 in cui i fiori recisi, maturi, poggiati sul piano, spogliati dal tempo
dei colori brillanti rivelano una spiritualità non distante, a ben guardare, da una ‘maternità’ o da una ‘deposizione’ del ‘600. Cupini è in grado di trasformare gli oggetti in sentimenti; egli
stesso spiega:”Quando si dipinge non sì deve mai dimenticare di entrare in sintonia con chi osserva; l’immagine fluida deve rispettare anche la reale dimensione in modo di non costringere il
pensiero ad una decodifica, bensì possa suscitare emozioni e capacità critiche individuali in tutti”. Esempi di questa concezione risultano dai colori vivissimi che risaltano sui fondi neri
ammorbiditi da sfumature di toni più tenui nei quadri di Cupini in cui si riconoscono ortaggi, frutti e altri elementi, solo in apparenza banali, che emergono da spazi indefiniti eppure
concreti.
Oggetti comuni acquistano una capacità evocativa che affonda le sue radici in una consapevole rivisitazione di alcuni maestri del passato italiano. Rifuggendo i
facili effetti decorativi che spesso deprimono la natura morta Carlo Cupini è stato definito “Il Caravaggio del 2000” e senza “dubbio la sua pittura riecheggia quella seicentesca ma con la
differenza di far vivere le cose anziché mostrarne lo svilimento. Non ci sono enigmi da spiegare nei quadri di Cupini; la sua arte è un omaggio alla natura e alla vita semplice, “Quando dipingo
un frutto o un ortaggio - racconta il pittore – cerco di coglierlo nel momento estremo che precede il disfacimento”.
Fermando il tempo che passa fermo “la speranza e la continuità della cose.” L’anelito del risorgere nella reinterpretazione delle cose che caratterizza Io spirito di
Cupini non può che scansare la definizione di “nature morte” superficialmente conferita al genere della sua arte, Vittorio Sgarbi si esprime in riferimento alla attuale mostra picena di Carlo
Cupini: “Alla fine le nature di Cupini sono vive perché aspirano a riprodurre ciò che De Chirico aveva chiamato ‘vita silenziosa’; nonnature morte, dunque, ma “vite silenziose”.
Le nature morte di Cupini a Duino
di Erica Culiat - Messaggero Veneto 04/06/2004
La pittura è sempre stata la sua passione. Disegnava, dipingeva all’acquarello, ma di fare il pittore come lavoro non se ne parlava proprio: il padre l’avrebbe
diseredato. Così, Carlo Cupini, opta per la facoltà di medicina, si laurea, si specializza, finché nel 1985 decide che della sua professione ne ha abbastanza, mamma e papà non possono dire più
nulla e finalmente tira fuori pennelli e colori per dedicarsi a tempo pieno a quello che è stato il suo sogno nel cassetto. Cupini, oggi è un signore di 71 anni, affabile cordiale, vive a Roma e
nei prossimi giorni sarà ospite al Castello di Duino con una mostra delle sue nature morte.
«Sono capitato a Duino per caso - racconta - siccome mi sono sposato appena cinque anni fa, volevo mostrare a mia moglie le località che frequentavo da ragazzo,
Vipacco, l’Isonzo, ho ancora parenti a Gorizia. Insomma ci trovavamo a Duino, si parlava con la titolare della Dama Bianca anche dei miei quadri e questa mi spiegò che il castello ospitava
numerosi eventi culturali. Il principe Carlo Alessandro della Torre Tasso ha visto poi un mio catalogo e mi ha invitato a tenere questa mostra che si inaugurerà sabato nella Galleria». Una
ventina appena di quadri, una mostra culturale, come precisa l’artista, non una mostra mercato «in cui ho scelto di esporre le cose migliori che tengo a casa». Le nature morte sono la sua
specialità. Cesta con mele. Delle mele e una brocca rotta. Un cappello, delle spighe, una falce, un orologio, una tazza e una brocca. Fichi, melagrane e ancora mele, come Cézanne. «Sono capace di
fare ritratti, ma l’uomo è latitante, oggi spiega ancora Cupini, non ha più tempo di posare, perché oggi sono tutti di corsa. A questo punto meglio un bel ritratto fotografico, espressione
artistica che amo e che ho praticato, vincendo numerosi concorsi, finché non ho iniziato a fare il pittore. La natura morta, invece, è un immagine mentale che tu componi. Inizialmente non hai
un’idea chiara, devi infatti organizzare quell’immagine mentale, ma proprio questo ti stimola. E ti stimola anche il fatto che quando dipingi un violino, per esempio, quello strumento musicale lo
puoi sistemare in mille modi e quindi devi variare profondità, volume, devi calibrare il colore e la luce. Diventa un modo di cimentare le proprie capacità.
Ecco perché preferisco dipingere nature morte. Questo genere squarcia uno spiraglio sulla realtà della vita nutrendosi anche di quel sentimento secentesco della
fragilità della bellezza e del piacere, della loro illusoria affermazione e brevità. Racconta della “struggente malinconia del tempo che passa, è quasi un dar vita alle nature
morte”.
Le nature morte di Cupini non sono enigmatiche come quelle dei fiamminghi, che attraverso determinati oggetti volevano svelare l’arcano, e sono semmai degli oggetti
rotti, «ma nella frantumazione delle cose possiamo ravvisare l’unità oppure la fragilità della bellezza».
La mostra sarà aperta fino al 25 giugno, tutti i giorni, escluso il martedì dalle 9,30 alle 17,30.
La poetica degli oggetti
di Stefano Papetti, 1998
Nella sua classificazione dei vari generi pittorici, il marchese Vincenzo Giustiniani poneva al quinto posto “... il saper ritrarre fiori ed altri generi minuti” e
commentava ricordando che il Caravaggio aveva affermato “... che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure”: prendeva così ovvio sul finire del XVI secolo quel
processo di rivoluzione della natura morta che, da genere minore destinata ad appagare i gusti di fruitori semplici, assurgeva proprio grazie a Caravaggio alle vette supreme dell’arte,
colorandosi di sottintesi allegorici e moraleggianti assai apprezzati dalle elette schiere della committenza aristocratica e religiosa. Nelle tele di Carlo Cupini, sembra di ritrovare, a distanza
di più di tre secoli, quella attenta e ponderata rappresentazione degli oggetti, quella meticolosa trascrizione figurativa che Caravaggio definiva con il termine “manifattura”: concetto in cui la
sapienza manuale del mestierante si coniuga con una vis poetica capace di nobilitare quanto rappresentato.
Nelle semplici e calibrate composizioni dell’artista, gli elementi della quotidianità emergono da spazi indefiniti eppure concreti; ortaggi, frutti e altri oggetti
d’uso comune acquistano così una capacità evocativa che affonda le sue radici in una consapevole rivisitazione di taluni maestri del novecento italiano.
Rifuggendo i facili effetti decorativi che spesso sviliscono la natura morta, Carlo Cupini riesce a sorprendere l’occhio vigile dell’osservatore e nel contempo
invita a riflettere sul rapido declino al quale vanno incontro i fragili elementi rappresentati nei suoi quadri. La ragione ci impone di temere che quei frutti e quelle foglie deperiranno
rapidamente, ma la capacità trascendente dell’artista li fissa per sempre in una visione raggelata e cristallina, destinata a sfidare i secoli. L’arte sconfigge e supera le leggi della natura,
assicurando la vita eterna e ciò che altrimenti si perderebbe nel breve volgere di qualche giorno e l’artista ritrova così una propria dimensione universale che sfida l’effimero. Nel contrastante
panorama dell’arte contemporanea, bisognerà quanto meno riconoscere a Carlo Cupini la capacità di operare con coerenza, risalendo controcorrente il fiume della pittura per raggiungere alla
sorgente di un arte che si propone finalità paiadeutiche, così la poetica degli oggetti acquista la magica di trasmettere valori universali nel segno di un sentimento oraziano che invita alla
contemplazione e alla morigeratezza.
La natura morta come metafora della vita
di Stefania Severi, 2010
La natura morta come metafora della vita. “Natura morta” è indicazione essenziale, ma non certo esaustiva, per indicare il complesso lavoro pittorico di Carlo
Cupini. Del resto è insita nella definizione di questo “genere” pittorico una ambiguità di fondo.
La pittura di fiori e di frutti, che dalla fine del 1500 ha incontrato quasi ininterrotto apprezzamento senza considerare i bellissimi esempi nel mosaico e nella
pittura parietale ellenistico-romana fu definita, nel 1700, “natura morta” ad indicare la rappresentazione di un elemento privo di suono o di movimento. Ai fiori ed ai frutti si erano, nel corso
del 1600, aggiunti oggetti di vario tipo e in svariati materiali: stoviglie in argento, bronzo, rame, peltro, ceramica e vetro; libri; sculturine in marmo; gioielli; strumenti musicali; strumenti
scientifici; cacciagione; pescato; ortaggi; conchiglie... Alla copiosissima produzione del passato si debbono aggiungere le “moderne” interpretazioni di Cezanne, Morandi, Braque ed altri, fino a
giungere ai nostri giorni.
All’origine, in Olanda, il termine “Stilleven” “Vita in quiete”, si affermò già dalla metà del 1600 e trovò una traduzione di immediata corrispondenza sia nel
tedesco “Stilleben” sia nell’inglese “Stili Life”. Anche se “Vita in quiete” è sicuramente più rispondente, è tuttavia indubbio che il termine “Natura morta” è scevro da qualsiasi riferimento
necrofilo e pertanto, ancora oggi, la natura che troneggia in tante composizioni è quanto mai “viva”. Non vanno dimenticate le complesse simbologie sottese a questo “genere”.
E’ allegoria della caducità della vita e pertanto spesso accostata ad un teschio. E’ immagine della vita stessa con il suo bene ed il suo male, come suggeriscono i fiori, ora freschi ora appassiti, i frutti, ora integri ora bacati, gli oggetti, ora perfetti ora in frammenti. E’ metafora della natura rinnovata dal sangue di Cristo, come indicano le grandi nature morte utilizzate come apparati nella festa del Corpus Domini.
Insomma la natura morta trascende l’evidenza oggettuale.
La premessa era doverosa perché le “presenze” armonicamente disposte nei dipinti di Carlo Cupini instaurano con l’osservatore un dialogo intenso e serrato,
suscitando non pochi dubbi. Queste “Nature morte” sussurrano, ammiccano, interrogano, perché, pur nella loro icasticità, si propongono come entità fatali emergenti da un caos primordiale. Come
infatti definire, se non “assenza”, il nero fondo da cui gli oggetti emergono. Ci potrebbe essere un processo dalla nigredo all’albedo, sotteso in questi dipinti, se volessimo far ricorso ad una
lettura in chiave alchemica, ma potrebbe esserci anche una lettura profondamente religiosa, in relazione al processo di realizzazione dei volti nelle icone. Questi, infatti, inizialmente coperti
di nero e di terra d’ombra bruciata, prendono forma e vita attraverso successivi strati di ocra rossa e ocra gialla fino al bianco.
Nell’Icona non si danno mai le ombre “dopo”, perché il percorso è solo e sempre verso la Luce. Anche Caravaggio, che giovanissimo dipingeva fiori e frutti nei quadri
di storia realizzati nella bottega dal Cavalier d’Arpino e che fu uno dei primi cultori del “genere” in Italia, faceva emergere dal buio i propri soggetti, lasciando che l’ombra, sia pure
parzialmente, li inghiottisse, ad indicare la difficoltà dell’uomo a sottrarsi dalle tenebre. Non sembrino tali digressioni lontane dal fare artistico anche contemporaneo. Cupini si pone davanti
al nero nulla e crea i suoi fiori, i suoi frutti, i suoi oggetti quasi a voler rendere palese che in essi è insito un contenuto spirituale che fa assumere loro il compito di glorificare il
Divino, La “Natura morta” per Cupini è: riflessione ed esaltazione della creazione; analisi delle difficoltà dell’esistenza; esigenza di ordine ed euritmia; affermazione del ruolo fondamentale
della conoscenza, qui esplicitata dalla impeccabile tecnica esecutiva; valore intrinseco della luce come veicolo di sublimazione e tramite per esplicitare l’entità metafisica. Insomma per Cupini
la “Natura morta” è summa del mondo e, più precisamente, summa del suo modo di vedere il mondo. Non a caso è il “genere” al quale si dedica praticamente in modo esclusivo. Potremmo forse
osservare che la sua concezione del mondo lascia pochi spiragli all’immaginazione o alla visionarietà, prevalendo in lui la riflessione e l’introspezione. Tant’è... il bello di ogni artista è
proprio quello di avere la propria “maniera” e Cupini ha una maniera personalissima ed assolutamente riconoscibile pur cimentandosi in un “genere” tanto diffuso. Sono infatti riconoscibili come
“suoi” soprattutto la gamma cromatica con prevalenza di colori di terra, il ritmo compositivo, il formato accentuatamente orizzontale e la predilezione per la giustapposizione degli
oggetti.
Pur con risoluzioni formali diverse, concettualmente le “Nature morte” di Cupini sono ascrivibili alla stessa poetica di quelle di De Chirico: l’accostamento di
oggetti riconoscibili in una composizione arbitraria così da rivelare, nell’immobilità e nel silenzio, la loro natura nascosta, Seppure indicabili sotto il denominatore comune di “Nature morte”,
i soggetti degli oli su tela di Cupini sono molto vari, tanto che per ciascuno di essi è possibile un racconto. Il “Cannocchiale” è una articolata composizione di antichi oggetti scientifici tra
i quali è inserito un improbabile cappello da mago, forse ci suggerisce che nessuna scoperta scientifica è possibile se prima non è intuita a livello poetico e visionario. La misteriosa
“Bottiglia nera” scintilla nei punti luce, adombrando la dialettica tra il mistero in essa racchiuso e lo spazio circostante, “Alle cinque della sera” è l’ora segnata dalla vecchia sveglia, unico
punto di luce fredda a contrasto con i toni caldi delle spighe e del cappello di paglia; la falce è lì ad indicare il sopraggiungere dell’ora fatale che tagliando la spiga ne consente tuttavia la
“trasformazione”. Inquietanti sono le belle maschere policrome dai cui occhi forati talvolta si intravede un mondo altro: il mistero celato rimane tale. Ed ancora mandarini, prugne, cipolle, uva,
mele, ciliege, albicocche e tanti oggetti. Questi spesso sono rotti o sbrecciati, sempre riprodotti minuziosamente per trasmetterci la qualità della loro essenza e della loro luce interna, perché
ciascun oggetto ha il suo gradiente di riflessione che è ciò che ci fa distinguere, visivamente, il peltro dalla carta, la ceramica dal rame.
A queste osservazioni che sono, condivisibili o meno, comunque afferenti ai dipinti di Cupini e pertanto sotto gli occhi di chiunque vi si accosti, voglio infine
aggiungere un dato personale, suggeritomi da un sopralluogo nello studio dell’artista.
Qui regna sovrano un disordine ordinato: su di un tavolo poggiano recipienti vitrei dalle fogge e dalle dimensioni diverse, disposti in modo tale da consentire a
ciascuno di essi di mostrare la propria forma; su un altro tavolo riposano i contenitori più vari in materiali diversi, tutti caratterizzati da un uso pregresso, nessuno di essi è nuovo, ognuno
nasconde una sua storia; un grande cavalletto accoglie un dipinto quasi terminato; sopra un ripiano sono allineati con precisione tantissimi tubetti di colore; troneggia, su di un piccolo
cavalietto da appoggio, un testo incorniciato: un pensiero di Leonardo; una lampada è predisposta in un angolo. Mi sono girata attorno cercando di individuare cosa avrebbe dovuto illuminare
quella lampada... non ci sono riuscita. Forse quella lampada illuminerà la nuova composizione che Cupini andrà definendo, scegliendo tra i suoi contenitori ed affiancando ad essi dei frutti
freschi. Come tutti coloro che hanno accumulato stagioni ed esperienze e mi considero tra costoro - pescano dal proprio passato e vi aggiungono tuttavia del nuovo, per dare vita agli anni, così
queste “Nature morte”, in cui oggetti “vecchi” si uniscono ai “nuovi” frutti, invitano, con la loro enigmatica relazione, a godere sempre e comunque del mondo, perché la vita è un dono
divino.
Nature morte vive, o meglio, vite silenziose
di Vittorio Sgarbi, 2000
E’ sempre più rara l’attitudine degli artisti alla virtù. Un tempo nell’arte e nella musica esistevano i “virtuosi”, cioè gli artisti capaci, attraverso un grande
mestiere, di creare emozioni e stupore, “è del poeta il fin la meraviglia (parlo dell’eccellente e non del goffo), chi non sa far stupir vada alla striglia”. Così scriveva Gianbattista Marino.
Oggi la meraviglia è rara, perché prevale il dilettantismo. Per questo un artista che coltiva il mestiere e, addirittura, un genere, un solo genere, quello della natura morta, sembra nonché
inattuale, fuori del tempo. In realtà queste rarità sono oggi meno rare; più di un artista ha ripreso a dipingere, che è esercitarsi per risultati che sembrano proprio quelli indicati da Marino.
Nella natura morta eccelle Luciano Ventrone, che ottiene risultati non iper realistici, ma super realistici, così che i suoi dipinti sembrano diapositive acolori. Ecco una prova di virtuosismo,
quasi fino all’eccesso.
Analogamente Carlo Cupini ha deciso di limitare la sua ricerca pittorica al campo delle nature morte, con effetti altrettanto “virtuosi” nell’esecuzione del vetro,
delle ceramiche, oltre che della frutta. In un suo dipinto del 1998 si vedono una conchiglia in funzione di vassoio che contiene ciliegie e prugne e, a fianco, un frammento di otre, posati su un
panno verde con il tipico effetto di sospensione fuori del tempo che lega queste ricerche alla pittura del ‘600 a partire da Caravaggio. D’altra parte Caravaggio fu il primo a scrivere, per
giustificare il suo cesto di frutta, che tanta fatica gli costava dipingere una figura umana quanto una natura morta, spostando il problema dell’arte dal contenuto alla forma. Qualunque cosa si
può esprimere purché si sia nella condizione di farlo: ecco la necessità del mestiere, come per un violinista o per un cantante. Sarebbe concepibile un cantante senza voce o un suonatore di
strumento musicale che non conoscesse la musica? Ebbene nell’arte è possibile dipingere senza saper dipingere; scolpire senza saper scolpire; essere artisti senza avere né arte e né parte. Contro
questa tendenza si pone Carlo Cupinì, che pretende di essere pittore perché sa dipingere. Il rispetto e l’ammirazione che noi abbiamo per virtuosi come Uto Ughi, Mstislav Rostropovic o Vladimir
Ashkenzy è proprio nel fatto che essi sappiano suonare il loro strumento, violino, violoncello, pianoforte, come nessun altro; e in quella qualità e capacità, determinate da studio e ricerca, sta
il loro mestiere ed il loro valore. Mestiere e valore coincidono. Capacità tecnica e capacità estetica sono la stessa cosa e noi ammiriamo quegli interpreti proprio per la loro
virtù.
Ad analoga virtù vuoi risalire nelle sue costanti e studiose ricerche, Carlo Cupini il quale non teme di essere, talvolta, perfino scolastico, diligente, non
fotografico, ma immediatamente godibile; né teme la condanna di coloro che confondono il piacere con il mercato, per i quali chi fa godere gli occhi è “commerciale”, cioè sta sul mercato. Come se
quelli che fanno ricerche sperimentali non ambissero, e spesso non ottenessero, spazi in musei, in rassegne pubbliche e private, la cui finalità è aumentare il valore di mercato. Questo è stato
uno degli obiettivi dell’arte povera, quella che ha fatto diventare ricchi rappresentanti di tale tendenza.
Cupini è appartato e modesto. Non vuole apparire più di quello che è e insiste con i suoi dipinti, composti senza bisogno di andare lontano, con quello che ha
davanti agli occhi: una brocca, un bicchiere o una sveglia; è felice di sorprenderci perché è in grado di far vedere anche a noi quello che lui ha davanti, qualunque cosa sìa. Alla fine queste
sue nature morte sono vive, non solo perché sono costituite di frutta oltre che di oggetti inerti, ma perché aspirano anche per riferimento culturale a riprodurre ciò che De Chirico aveva
chiamato, “vita silenziosa”: non nature morte, ma vite silenziose.
La pittura di Carlo Cupini
di Marcella Rossi Spadea - Arte nel mondo n. 6 - 1998
Quando la vita dice: punto e a capo. E allora si lasciano consueti bagagli, se ne afferrano altri e con questi si va lungo l’itinerario che l’animo, magari
inconsapevolmente, ha sempre desiderato percorrere. Non importa se in avanti o a ritroso; importante è raggiungere la meta,obiettivo di una ricerca intima, indispensabile. Così per Carlo Cupini.
Nato a Frascati (Roma), di dotta estrazione familiare percorsa anche da intensi bagliori di cultura mitteleuropea, egli reagirà alle squassanti esperienze di fanciullo, spettatore delle crudezze
del secondo conflitto mondiale rifugiandosi negli spazi affettivi e in severissimi studi classici dai quali proverranno le sue tenaci convinzioni umanistiche e umanitarie. Medico, ricercatore
scientifico, intellettuale (anche oltre i confini di Roma, città di residenza e di lavoro), a poco a poco avverte altre esigenze. Gareggiamo?
Dice lo spirito alla carne.
Impazza la vita come una falena in prossimità di una lampada, ma fra tanta frenesia sempre più lunghe e frequenti si fanno le pause dedicate al silenzio. Il silenzio
è un gran parlatore, ascoltabile da pochi privilegiati; è suadente nelle sue proposte, è nitido negli orditi e nelle trame che tesse. Convince. Il dottor Cupini, saturo di combattimenti (anche di
quelli vittoriosi), di anestesie esistenziali che ovattano valori eterni, circoscrivono la libertà dell’uomo, sacrificano alla materia le espressioni dell’intelletto, si pone al centro del suo
pensoso io. Decide, cede ai richiami interiori e quando il cuore è ben caldo di emozioni, regala a se stesso prima che agli altri, con lo strumento che da sempre gli suona in petto, il pennello.
Ne scaturisce una vita nuova, ricca dell’ingenua felicità di un bimbo che ha trovato frescura nel letto materno dopo una nottata febbrile. Ad evocazioni raccolte, a traguardo spirituale raggiunto
(l’aquilone Pascoliano si liberò dalla selva del convento dei Cappuccini, quello dei Cupini è volato dal collegio dei Gesuiti frequentato dalle elementari alla maturità classica), ora le sue
distese pittoriche sono là, nella luce calda di una natura morbida e tenera perché dettata dal quotidiano più semplice: fiori, boccali, candele, frutta, tomi antichi, tegami, ceste, lucerne.
Racchiusi in un simbolismo plurimo che fa scorrere liete le penne dei critici.
Il quotidiano di Cupini, che incantò il fanciullo nella quiete assolata della campagna laziale da lui vissuta e gli cantò nell’animo inni le cui note non si
sarebbero più spente ha connotati modesti (rame, legno, coccio, carta, ferro, paglia) privi però di mistificazioni interpretative, ricchi di naturale bellezza, d’intrinseca valenza.
La chiara predisposizione per l’ordine di stampo geometrico presente nelle sue tele decifra l’indole dell’uomo: forte, serena, attestata su valori etici
irrinunciabili.
La predilezione per la sommessità dei toni cromatici - oro antico, giallo ocra, amaranto, blu di Prussia ne sigillano la visione di vita: largo ai sentimenti
profondi, a desiderio d’intimità, ai legami con il vissuto. La tavolozza ha il compito di mediare i colori; essi non le appartengono se non come impasto di sostanze naturali o artificiali. In
realtà, scaturiscono da ritrovati sogni, da verosimili speranze. Genesi metafisica, dunque, quella dei colori usati dall’artista di Frascati; per il quale, il senso cromatico è anche mezzo per
definire le figure che risultano coinvolgenti, eloquenti, catturanti. Dalla fine degli anni Ottanta, Carlo Cupini inizia a rendere pubblica la sua passione per la pittura, fino ad allora
riservata a se stesso e agli intimi, e nel giro di poco tempo ne sarà assorbito quasi del tutto.
Tra mostre personali e collettive gli si aprono gallerie, gli si affeziona una schiera crescente di estimatori: Roma, Ascoli Piceno, Taranto, New York,Teramo, la
favolosa Positano. Carlo Cupini ovvero ‘arte dei colori della memoria, della memoria dei “colori” - Di certo, non un “Pittore per caso”.